MiragesVito Carta: Il Tango Finale Del Corpo FemminileLa fotografia è qualcosa che può spaventare. La rappresentazione della "cruditè" del reale, appunto, può suscitare, nel fruitore dell’“aperitivo arte”, una convulsione dell’anima, qualcosa che può sconvolgere anche gli stomaci più abituati ai pugni dell’estetica. Ma il reale non è, quasi mai, ciò che è; in fotografia, e in genere in tutta l’arte, il reale è ciò che si vorrebbe; o meglio, è ciò che non si ha il coraggio di volere fino in fondo nella vita di tutti i giorni, forse perché la cosiddetta vita di tutti i giorni non ce ne dà gli strumenti. Vito Carta ha il coraggio “voyeur” di volere. Il coraggio di una volontà che può rappresentare e rappresentarsi. Che ha la forza di incidere, con il vigore della propria addomesticata violenza, sulle immagini della propria personalissima realtà interiore. Che ha il coraggio di “vivere”, con pennellate acquerellate degne del migliore Otto Dix, nella pittura della decadenza, in quello che nella Repubblica di Weimar era rappresentato "dal vivo" con la crudezza di un articolo di cronaca nera riguardante l’omicidio perpetrato da un serial killer del tempo (come il Peter Kurten di Duesseldorf), o, in ambito cinematografico, con l’espressionismo omicida di un Fritz Lang alle prese coi fischi premonitori del suo assassino di bambine Peter Lorre. Le donne di Vito Carta sono donne amate ma seviziate: seviziate dal troppo amore, seviziate dal suo desiderio di rappresentarle come lui le vorrebbe sempre; soggetti, e mai oggetti, della propria cronaca nera personale, dei propri personali ed intimi inferni, del proprio tormento tutto suo, tutto maschile. La fotografia si fa attimo fuggito, i contorni acquosi dell’intervento pittorico, ancorché intrisi di dolcezza struggente, rendono sfuggente l’occhio dell’osservatore; il quale, impossibilitato a catturare un attimo che peraltro non è mai esistito, poiché il tempo non è altro che uno scorrere inarrestabile (e il tempo fotografico è una specie di tempo "metafisico" illusoriamente fermato), si perde oltre i contorni smaterializzati di queste figure femminili; le quali figure trascendono, spandendosi come onde sulla sabbia, nella natura. Donne, quindi, come sale della terra che si frammischia, nella purissima indecenza della creazione, con la nuda e cruda terra, col paesaggio circostante, sia esso spiaggia sia esso nero d’estremo contrasto, come fondo pittorico da ritrattistica caravaggesca . Vito Carta è un continuo rinnegamento d’origini fatto artista. Egli è a sud di ciascun nord, potremmo dire; freddo ma delicato, violento ma mai sanguigno, erotico ma mai volgare (non lo sarebbe nemmeno se lo volesse) concettuale ma senza calcoli, senza meschinerie seriali di “marchetta” da nipotino “schifanoide” di Warhol. Ogni foto è una scoperta, ogni foto è un romanzo, talvolta un capitolo, mai un’unica pagina. La compiutezza è la sua storia, ogni sua foto è una storia compiuta, ma dal finale quasi sempre aperto. Vito Carta si mette in gioco ad ogni romanzo-ritratto , ad ogni romanzo-donna, ad ogni radice dei capelli-capoverso d’ogni sua opera. Egli è l’esatto contrario di Dahmane, che fotografa la patina erotica delle donne, che rappresenta, peraltro con grande abilità, il suo immaginifico e immaginario “boudoir” personale, spesso “en plein air”. Carta, invece, scarnifica la carne, la liquefa compiendo una specie di sangennaresco miracolo apocrifo, tenta la missione, per lui non impossibile, di coniugare la materia visiva con lo spirito libero di un’osservazione molto espressionistica. Ecco il perché, io credo, dei molti squarci di vita femminile presenti nelle sue opere, parti di donne che sono parti della loro stessa vita rappresentata in essenza, come profumo delle loro anime; il contrario della macelleria pornografica, l’abiura totale dell’erotismo satinato degli Angelofrontoni playboyeschi, delle ipererotiche e glamouresche "pochades" fotografiche di un Helmut Newton, il Tinto Brass, travestito da Visconti Luchino, della fotografia. Gli squarci s’aprono sulla pelle quasi impalpabile di queste belle donne,di queste ninfe-ninfee sensuali quasi come in un Monet fotografico, mai totalmente nude, mai svelate per intero, e perciò concubine del nostro desiderio inappagato; sempre, in parte, impressionisticamente occultate alla nostra comprensione visionaria. Vorremmo conoscerle meglio, queste donne, di loro vorremmo saperne di più: ma Carta sembra volerci trattenere nel mistero di quelle anime, vuole anche dirci, forse, che nell’arte nulla va capito, tantomeno spiegato; che l’arte si spiega solo con l’opera, meglio se addirittura"omnia", che le parole sono per i critici e gli esteti di professione e i sentimenti sono per il pubblico, e che la visione è per tutti coloro che hanno occhi, lucidi forse in tutti i sensi, per volerla vedere. Che il corpo “ virato” di una donna, di una femmina, può essere la mappa la più esaltante del nostro viaggio all’interno di noi stessi, all’interno del nostro desiderio, violento e comunque irrefrenabile, nonostante tutto, di vivere la nostra vita, qualunque essa sia. L’estetica torna ad essere grammatica, la sintassi si dispiega a ventaglio tra le curve pericolose di tutte queste donne così madri, così figlie, così amanti, così amate. La fotografia delle donne di Carta sono perciò piene d’amorevole ossessione, d’inoccultabile tormento, sono pregne d’amorevole violenza e d’amorevole senso della perdita. Sono le fotografie di un appassionante e appassionato amante dell’anima femminile, allo stesso tempo tenero e cinico, incantato e disincantato; il quale sa, col sensibile cinismo che l’esperienza nel tempo gli ha servito come destino-dessert, che l’oggetto del suo amore, come in una virtuosistica dissolvenza incrociata di Max Ophuls, si perderà, svanendo e riaffiorando e svanendo di nuovo, in un tango finale della perdita accettata, stoicamente, dolcemente, nel postribolo incantato della sua immaginazione. Perché ogni emozione si paga: con l’emozione successiva, col successivo fotogramma, fino alla fine della pellicola. FRANZ KRAUSPENHAAR 19/20.08.2000
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